Con questo post intendo celebrare la ricorrenza della Battaglia del Solstizio con il brano seguente, che ho avuto il piacere di leggere in un momento celebrativo fra Artiglieri in armi e in congedo iscritti all'Associazione Nazionale Artiglieri d'Italia. L' iniziativa, sobria e sintetica, attivata dal Comandante dell' Istituto Geografico Militare di Firenze, massima autorità dell'Arma in città e dal Presidente della Sezione A.N.Art.I di Firenze, ha avuto luogo venerdi 12 giugno, in una splendida location: il celebre Casino della Livia, di medicea memoria.
Dopo la disfatta di Caporetto le truppe, attestate sulla linea del Piave, sferrarono un poderoso attacco che si concluse 5 mesi dopo con la riconquista di Vittorio Veneto. Determinante fu l'apporto dell'Artiglieria che, con la massima precisione e potenza del suo tiro, preparò e sostenne, con oltre 5000 bocche da fuoco, il riscatto dell'Esercito Italiano. Convenzionalmente il 15 giugno si celebra la Festa dell'Arma di Artiglieria.
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Il capopezzo lo svegliò
di malagrazia e lo spinse fuori dal ricovero serventi verso la piazzola del
pezzo. Era molto umido e freddo nonostante fosse la metà di giugno: era piovuto
per giorni rendendo tutto scivoloso con fango e pozze d’acqua da tutte le
parti. Gli scarponi erano un disastro e le pezze da piedi ormai marce,
rendevano i piedi perennemente freddi. Le fasce mollettiere distribuite in
sostituzione dei gambali, praticamente introvabili per le truppe combattenti,
erano ormai un ricordo incrostate di fango e zuppe d’acqua. Era già un lusso
essere vestito e calzato di tutto punto, una dotazione regolare di scarpe ed
abiti decenti li aveva avuti solo con l’arruolamento: in casa, come ennesimo
figlio di poveri mezzadri, gli abiti erano un lusso e le scarpe non le aveva
avute se non, riciclate, per le grandi occasioni, per il resto solo zoccolacci
di legno.
Gli altri serventi, anche
loro nelle stesse condizioni, si muovevano nell’oscurità sotto la pressione del
caporal maggiore capopezzo, un sussiegoso settentrionale con pretese
intellettualoidi, del quale i soliti ben informati mormoravano che aveva
partecipato agli scioperi operai del maggio precedente e pizzicato dai
carabinieri era stato spedito al fronte, col “baffo” quale operaio
specializzato. Era però un buon tecnico e gli aveva dato affascinanti
spiegazioni sul funzionamento del pezzo al quale era assegnato: il famoso 75/27
mod.11 Dupont.
Quale “caricatore” iniziò
ad adempiere alle incombenze delle quali era incaricato: tolse il cappuccio di
protezione dal vivo di volata e svincolò la bocca da fuoco dall’aggancio sugli
organi elastici dell’affusto ai quali era ancorata in posizione di marcia e di
riposo, quindi, dato il convenzionale cenno al puntatore si pose tra le cosce
del pezzo come prescriveva la libretta, pronto ad inserire all’interno della
camera di scoppio la granata che gli veniva passata dal “porgitore” che a sua
volta la riceveva dal “preparatore” primo anello della catena, sotto la
sorveglianza del “capopezzo”.
Di lì a pochi attimi si
materializzò il sottotenente comandante di sezione che sempre in massimo
silenzio, come disposto con rigorosi ordini dei giorni precedenti, li radunò
ricordando loro l’importanza di quello che erano chiamati a fare, i pericoli
incombenti per loro e per le loro famiglie, appellandosi al loro onore di
artiglieri del Regio Esercito e informandoli che il nemico si apprestava a
lanciare una grande offensiva che spettava proprio a loro di rintuzzare sin
dalle primissime fasi con la loro azione impedendogli di attraversare il fiume
che scorreva poco avanti a loro. Un fervorino che gli scaldò il cuore e lo rese
partecipe del grande atto che si stava per scatenare. Anche negli occhi dei
suoi compagni lesse la stessa volontà e decisione e tornò al pezzo più
stimolato e motivato.
In attesa di agire, nel
buio rifletté che capiva finalmente come mai la sua batteria, acquartierata in
un piccolo paesino delle retrovie per un periodo di riposo e di addestramento
alle nuove tecniche della manovra del fuoco, era stata allarmata e in tutta
fretta spedita sulle attuali posizioni con tutte le cautele possibili:
movimenti sul far dell’alba e dopo il tramonto, lavori di interramento della linea
pezzi ridotti al minimo, mascheramento curatissimo, aggiustamento sugli
obbiettivi solo in maniera assolutamente saltuaria e mai per sezione o per
batteria ma sempre e soltanto con il pezzo base, a dissimulare la presenza di
tante bocche da fuoco di tutti i calibri, ammassate in quella zona del fronte,
come se già si sapesse o si aspettasse qualcosa…..
All’improvviso sembrò che
una scossa elettrica invadesse tutti, il capopezzo chiamò i serventi e dette il
fatidico ordine: caricate! La catena si mise in movimento, il preparatore pescò
una granata già pronta dalla riservetta e la passò al porgitore che la passò a
lui che con decisione la infilò nel vivo di culatta, pressando con
determinazione il fondello del bossolo con il pugno della mano destra a far impegnare
la rigatura della canna dalla corona di forzamento della granata, quindi il
puntatore di destra chiuse la culatta: il pezzo era pronto al fuoco.
Si aspettò ancora, erano
secondi che parevano ore e pesavano come macigni, la tensione era alle stelle e
quando giunse l’ordine di “fuoco!” erano circa le una della notte, fu una
liberazione il puntatore di destra azionò la leva di sparo e il pezzo rinculò
bruscamente sui due piani, la bocca da fuoco sulla culla e l’affusto sul
sottoaffusto. Il caporalmaggiore gli aveva spiegato che era un grosso
vantaggio, permetteva al pezzo di non saltare sull’affusto, migliorando di
molto la stabilità dello stesso a tutto vantaggio della precisione del tiro e
della velocità di fuoco, essenziale in un pezzo ideato per l’artiglieria da
campagna e pertanto devoluto all’accompagnamento diretto dell’azione delle
fanterie amiche nell’attacco e al fuoco di sbarramento per la protezione delle
proprie posizioni nella battaglia difensiva. L’ordine fu perentorio “fuoco a
cadenza massima!” Pertanto ogni pezzo poteva sparare a volontà alla massima
velocità possibile di circa 7-10 colpi al minuto, con i bossoli incandescenti
che si ammucchiavano sui piedi dei serventi e loro che non avevano
materialmente il tempo di respirare per la necessità di infornare in
continuazione nuovi colpi.
L’azione, contrariamente
alle aspettative, continuò se non con brevissime interruzioni anche quando
iniziarono a fioccare i colpi in arrivo dell’artiglieria nemica che tentava un
tiro di controbatteria per alleggerire la pressione sulle proprie fanterie, ma
era in effetti un tiro sconnesso e mal registrato, mancando agli osservatori
nemici precisi punti di riferimento e dati di tiro precalcolati basandosi nella
notte solo sulla rilevazione delle vampe per i colpi in partenza, elemento non
facilmente ed univocamente rilevabile data la numerosità delle armi che
erogavano il fuoco.
Peraltro danni e perdite
si rilevarono anche sulla linea pezzi del suo gruppo ma il nostro continuò a
caricare il suo pezzo con determinazione e il sudore gli colava lungo la
schiena e dalla fronte, si liberò in un attimo della giubba e proseguì
nell’azione che gli sembrò nel contempo eterna e brevissima, fino a quando li
raggiunse l’ordine di sospendere il fuoco e poi: pezzi in sicurezza!
Notò solo allora che il
sole era già alto nel cielo e il fumo degli scoppi e degli incendi si alzava
alto, il rumore violento della battaglia giungeva fragoroso ma nonostante il
nemico fosse riuscito a passare il fiume, come seppe poi, in altri settori, di
fronte a loro era stato inchiodato sulla linea di partenza con i reparti ancora
ammassati; crollò allora esausto come i suoi compagni sul posto e si riposò
pronto ad un nuovo allarme che non mancò ma che fu meno grave e pesante del
primo.
Il suo reggimento alcuni
giorni dopo, tirato a lucido e schierato al gran completo ricevette l’augusta
visita del Sovrano che si rallegrò con tutti per la brillante azione, strinse
la mano al Comandante e decorò la bandiera di una ricompensa al valore concessa
motu proprio!
Restò tutta la vita
orgoglioso di avere partecipato a quella battaglia e ancora, anziano ripeteva
ai suoi nipotini che lo ascoltavano rapiti alcune parole della preghiera
dell’artigliere:
……di
rendere il nostro cuore
forte
come la tempra dei nostri cannoni
puro
il nostro animo come la fiamma
che
erompe dai nostri pezzi.
a cura di Francoeffe